Se è vero che la storia di una città è fatta di documenti, carte, fonti e dati, è anche vero che esiste una storia non scritta, che sfugge alle analisi degli storici, che non si trova sui libri di Storia, sui sussidiari e nemmeno nelle voci delle enciclopedie. Perché la storia di una città è anche la somma delle piccole storie familiari, quelle che si nascondono dietro un portone. Ed è anche un perdersi di conversazioni che non lasciano traccia, che vibrano nell’aria davanti al fuoco del camino.
La storia di Abdon Alinovi si lega indissolubilmente alla storia silenziosa e mai scritta della città di Eboli. Sarà tra i dirigenti storici del PCI, parlamentare attivo e vivace per quattro legislature, Presidente della Commissione Antimafia. Il suo contributo alla Storia dell’Italia Repubblicana è prezioso. Ma prima di tutto questo, quando era ancora solo un bambino, prima, e un giovane, poi, in due occasioni in particolar modo, la sua vicenda personale può essere legata ad una ipotetica storia sentimentale e non scritta di Eboli.
Il primo episodio riguarda la sua infanzia e quello che succede nella sua famiglia, tra le mura di casa. È il giorno dell’adunata fascista e Almo, il fratello maggiore di Abdon, è entusiasta di parteciparvi. Non ha intenzione di continuare gli studi, è ammaliato dalle promesse fasciste ed è pronto a consegnarvisi, accecato dai furori giovanili. Il padre, Nino Alinovi, che mal tollera i metodi fascisti, quella mattina stessa compie un gesto di inenarrabile forza: straccia la divisa dell’adunata di Almo. È il momento che segna una spaccatura netta, una faglia che dilania gli equilibri familiari, che segna irreversibilmente la crisi tra padre e figlio. Una crisi che vista da qui, adesso, è il simbolo di qualcosa di più grande, un virus che colpisce l’intera nazione (e in scala più ampia, la Spagna franchista, la Germania nazista, il Portogallo di Salazar) e che deflagra proprio all’interno delle famiglie, nei rapporti più stretti, per far spazio all’incanto mortale del totalitarismo. Ecco, la vicenda di quel giorno, fra le mura di casa, che rompe l’incanto familiare dell’infanzia, è il simbolo perfetto di una città (e di una nazione) che cade nel vortice fascista, dividendosi fin nei suoi legami più saldi. Visto con gli occhi di un bambino, che sono gli occhi di Abdon, tutto questo è l’inizio della fine e forse già, anche, l’inizio di una “guerra”.
Il secondo episodio riguarda un Abdon già giovane, che ha completato gli studi – con grande difficoltà e lontano da casa, a Spoleto, dopo la prematura morte del padre –. Ha solo vent’anni e ha ottenuto un posto alla Cancelleria della Pretura di Tricarico. Siamo negli ultimi mesi del ’43, al governo c’è Badoglio ma l’Italia continua ad essere divisa e in guerra. Quando Abdon arriva a Tricarico, con cartina geografica alla mano e in balia di treni, corriere e carri guidati da cavalli, l’accoglienza non è delle migliori. Ha difficoltà a trovare un posto dignitoso dove dormire e per di più un gruppo di ragazzetti, chiaramente organizzati, al suo passare gli grida contro “Via, via, abbasso l’Anticristo!”. Tutto depone nel peggiore dei modi, fino a quando, pochi giorni dopo, non conosce Rocco, un giovane suo coetaneo (entrambi sono nati nel ’23). Rocco studia giurisprudenza “per necessità familiari”, ma ama gli studi letterari, scrive poesie, recita a memoria Montale, Quasimodo e Ungaretti. Ama la sua terra e chi la abita, i contadini. Ha i capelli rossi e un nugolo di lentiggini che gli accendono il viso. Con Abdon passano intere serate intorno a un camino, riscaldandosi e leggendo poesie, raccontandosi le loro storie e quelle di chi li circonda, infervorandosi per le promesse di un futuro migliore, di una Italia diversa.
Così nel frastuono della guerra, tra le sirene dei bombardamenti e le mille difficoltà della vita di quei giorni, due giovani ventenni – insieme a Carlo Grobert - si inventano la prima ricostruzione politica e sociale di Tricarico, fondando le prime sezioni di partito e il Comitato di Liberazione.
Di lì a poco, alla fine della guerra, Rocco diventerà il sindaco più giovane d’Italia, il primo sindaco di Tricarico dell’era Repubblicana. Si batterà per i suoi contadini, costruirà un ospedale che garantisca cure e assistenza, ascolterà e abbraccerà le ragioni di ogni singolo abitante. Il resto è Storia, e una storia che purtroppo e ingiustamente non durerà molto per lui.
Il 10 dicembre del 2015, settantadue anni dopo quelle sere di Tricarico, Abdon Alinovi presentò il suo libro testamento “Rosso pompeiano” ad Eboli, nella sua città natale. Era emozionato e stanco, la sua mano tremava nel lasciare una firma sul libro a tutti noi che gliela chiedevamo. Durante la presentazione fu brillante e impeccabile come sempre. Nel suo racconto passavano le immagini dell’intera storia repubblicana, dalla nascita alle ultime vicende. Ma volle congedarsi con una poesia, con “quella” poesia di Rocco.
La voce gli vibrava forte, e per un attimo lo abbiamo visto tutti tornare ventenne. Lo abbiamo visto tutti al fianco di Rocco Scotellaro. Forse non hanno mai smesso di parlarsi, e quel fuoco antico delle sere di Tricarico arde ancora. Arde sempre.
non soffìatemi in cuore
i vostri fiati caldi, contadini.
Beviamoci insieme una tazza colma di vino!
che all'ilare tempo della sera
s'acquieti il nostro vento disperato.
Spuntano ai pali ancora
le teste dei briganti, e la caverna
l’oasi verde della triste speranza
lindo conserva un guanciale di pietra...
Ma nei sentieri non si torna indietro.
Altre ali fuggiranno
dalle paglie della cova,
perché lungo il perire dei tempi
l'alba è nuova, è nuova.
Giuseppe Avigliano