I personaggi popolari, le loro storie mai scontate ed il loro quotidiano vivere faticoso, nel tentativo di soddisfare i più elementari bisogni, rappresentano un tesoro di saggezza illuminante ed uno spaccato di storia cittadina: nel tempo, entrano a far parte della memoria collettiva del proprio paese, finanche divenendone fondamenta di uno spirito comunitario ed identitario.
Di seguito riportiamo alcuni dei più significativi personaggi popolari ebolitani, che più fanno parte della memoria collettiva della Città e che, ancora oggi, sono spesso soggetti di racconti letterari, testi musicali e rappresentazioni teatrali.
Marialonga: "Anema longa" erano chiamate le persone dal fisico longilineo e di statura alta: quasi un fantasma, come rivela il termine "anema", vero fulcro dell’espressione, la quale così marca, con quella genialità denotativa e connotativa ad un tempo che nella selva della lingua italiana raggiunge l’apice nei dialetti di area napoletana, sia la immodificabilità della condizione di slanciatezza e magrezza di figura (l’anema è anema, ex Divinis data, nulla esiste di più immodificabile ed insensibile agli eventi della vita terrena) sia la sensazione di immaterialità, incorporeità eterea e fantasmatica che il "profil à la silhouette" induce negli osservatori. Naturalmente, come ogni fantasma, un’anema longa può essere benevola, indifferente o anche malevola, a seconda dell’animus indotto dalle circostanze in chi lo incontri. Ogni fantasma non è che il fantasma che si ha dentro, diceva un grande. Nel caso "jevulese" il personaggio popolare che più è ricordato per queste connotazioni è certamente "Maria Anema longa", meglio conosciuta come Marialonga, la quale in historia mundi era una profuga che viveva nella chiesa della Madonna del Soccorso. Se ne rendeva artatamente piuttosto inquietante l’immagine, a fini di prevenzione dagli infortuni: i genitori la evocavano sinistramente per intimorire i loro bambini e così dissuaderli da marachelle e birbanterie. Ad esempio, per non farli affacciare pericolosamente dalle finestre ammonivano: "Non ti sporgere perché Marialonga ti tira giù".
Accadeva ad Eboli, come in altre zone d'Italia, che vi era una persona che veniva chiamata al capezzale dei morenti per aiutarla nel trapasso. Veniva chiamata "Angelo della buona morte" ma ad Eboli era definita col nome di 'A Strangulatora. Era una donna che faceva questo mestiere proprio per alleviare i dolori e le sofferenze di coloro che stavano per lasciare questa terra. Il "mestiere" si tramandava di madre in figlia; la donna dava la vita, la donna la toglieva. La chiesa condannava questo tipo di pratica che altro non era che l'autanasia di oggi. La famiglia della Strangulatora, abitava da secoli nella zona detta "Caccone" (oggi, Via Cavone) damolte generazioni. Lì viveva sua nonna, lì sua madre, lì viveva lei con sua figlia e naturalmente suo marito. Gente povera che viveva alla giornata. Non chiedeva nulla a chi la chiamava per eseguire il rito del trapasso, perché essere pagati per far morire portava male. Qualcuno le dava qualche alimento e solo i più ricchi le davano qualche grana (pochi soldi). La Strangulatora veniva chiamata a sera inoltrata quando di luce non ve ne era assolutamente ed i parenti, tutti intorno al letto del giacente, pregavano. Ella entrava e alla sua vista, in massa si mettevano davanti alla porta ben chiusa o addirittura fuori, se la casa era composta da una sola stanza. Moltissime volte le case dei poveri erano formate da un solo vano che facevano da cucina e da camera da letto e per i più fortunati faceva anche da stalla (fortunati perché vuol dire che avevano anche gli animali). Tutti, in coro, pregavano. Molte erano anche le preghiere spontanee nelle quali si chiedeva, in volgare, l’assistenza dell’Angelo custode durante il trapasso. La Strangulatora, al capezzale del sofferente, una volta invocato Cristo e chiesto il perdono per l’azione che stava per eseguire, soffocava il morente. Spesse volte si aiutava con un legno a mo’dimartello colpendo il cranio e poi lo finiva. Questo, però si verificava quando i dottori dei fisici (medici) esplicitamente dicevano che non c’era nulla da fare. La Strangulatora raramente veniva accompagnata da qualcuno, eccetto quando diventava vecchia. In quell’occasione veniva accompagnata dalla figlia o da quella che poi doveva prendere il suo posto, una volta che lei non poteva più esercitare. Dopo che era avvenuto il trapasso ella restava in preghiera, forse per chiedere perdono, o forse per far finta di pregare perché ufficialmente lei non figurava come quella che strangolava il morente ma come quella che chiedeva a Dio di farlo morire con le preghiere. A volte ci impiegava anche più di un’ora e a volte meno. Dipendeva dal suo stato d’animo. Quando la morte era avvenuta ella usciva dalla stanza con la candela accesa e restata aperta la porta, i parenti dalla preghiera passavano alle lacrime. La donna, vestita di nero ed incappucciata, com’era venuta se ne andava e nessuno la poteva seguire perché nessuno poteva e doveva sapere chi ella era davvero.
Isabella Marcangione era una giovane donna che abitava ad Eboli nel XV° secolo ed appartenete ad una delle più losche famiglie nobili del paese. I fratelli erano talmente gelosi della loro unica sorella che facevano deviare il percorso cittadino delle processioni, affinchè il corteo religioso passasse davanti il palazzo nobiliare della famiglia ed Isabella potesse assistere alla processione, dietro le sbarre della finestra della sua stanza da letto. Perdutamente innamorata di un giovane, appartenente ad un'altra famiglia nobile ebolitana ed avversa alla sua, Isabella fu vittima della gelosia dei fratelli: venne murata nella sua stanza ove morì di stenti e di dolore per il suo amore mai realizzato. Alla romantica ed insieme tragica figura di Isabella Marcangione, ed al suo amore impossibile, è una dedicato il sonetto "Quella finestra di Eboli":
Sedevi penante là presso quel cereo riflesso, // ché pensavi immenso al tuo immenso amore, // e lì, incamerata, vagivi lacrime e dolore; // e imperituri creavi quel calor dell’amplesso, // qual’empia gioia che ‘l fato non t’ha concesso, // ed eccoti qui, col mal che ti pressa il cuore // mentre la tua gioventù sfiorisce e muore, // e più del ben che saggiasti, vinse ‘l decesso. // Ahi quanto dovea esser bello quel caro sogno; // quei balenii di beltà che brillan in quella coppia, // ma d’este dolci idee resta fervida inventiva. // E così siam qui, per capir il tuo gran bisogno // d’un affetto mai nato e di un cuor che scoppia, // e così noi riveriam l’eroina che sarà // sempreviva!
Ze' Culonna era un'anziana donna che abitava in località Ceffato, un borghetto periferico di Eboli, con poche case, una fontana da cui ancora oggi sgorga acqua freschissima ed una piccola chiesa dedicata alla Madonna di Costantinopoli. Proprio in una di queste modestissime abitazione dimorava Ze' Culonna. Viveva da sola e nessuno sapeva come riuscisse a sopravvivere. Divenne famosa per il suo modo di rispondere alle persone che, incontrandola, le chiedevano cosa cucinasse: "riscaldo un po' d'acqua sul fuoco, vi aggiungo un pizzico di sale e la verso sul pane duro o su un biscotto". Un pasto insomma molto povero. Un giorno due donne curiose, intenzionate ad assaggiare questa misteriosa "acqua 'e ze' Culonna" ed essendo anche intenzionate ad aiutarla nella preparazione, si presentarono a casa dell'anziana donna, proprio nel mentre era a tavola, dedita a consumare il suo presunto modesto pranzo. Ma con grande stupore si accorsero che in realtà Ze' Culonna mangiava ‘o ciauliello, pietanza gustosissima tipica ebolitana. "Altro che acqua condita col sale!", esclamarono stupite le due donne, che raccontarono a tutti ciò che avevano visto e cosa in realtà fosse la (da allora divenuta famosa) "Acqua 'e Ze' Culonna".
Ancora alla fine del 1800 non esisteva la luce elettrica in Città e la sera venivano accesi dei lampioni a gas per illuminarla. La figura de 'U Lampiunaro, che i latini con una bella espressione chiamavano "lucernarum accensor", era addetto proprio all'accensione e spegnimento dei lampioni, posti soprattutto nella piazza, mentre le rue e gli altri vicoletti erano illuminati poco, da una debole luce e, per sconfiggere la paura, spesso si attraversavano quei tratti di strada correndo, cantando o recitando preghiere. L’ultimo personaggio ebolitano, addetto a questa mansione, fu Alfonso Visconti, riconosciuto da tutti col nome di Zì Fonz 'u Lampiunaro, nato nel 1855 e morto nel 1957. Vissuto dunque fino a 102 anni, anche questo personaggio è divenuto parte integrante della storia ebolitana. Si narra che in occasione del suo centesimo compleanno, il paese gli tributò gli onori degni di un cittadino benemerito. Venne finanche una troupe della Rai che lo intervistò, chiedendogli se ricordasse il giorno del suo matrimonio e come lo avesse trascorso. L'arzillo Zì Fonz rispose: "aggio mangiato maccarune 'mbruscinate, carne 'e strascione 'e nu bicchiere 'e vino; e poi me jett'a curcà". Al di là di questa allegra battuta, questa figura popolare è ricordata con riguardo, avendo racchiuso con la sua esistenza oltre un secolo di storia locale e nazionale: aveva 5 anni quando Garibaldi fu ospitato ad Eboli nel palazzo La Francesca, durante il suo tragitto con I Mille verso Napoli. Ne aveva 45 quando vi fu l'attentato mortale al re d'Italia Umberto I. Ed ancora vide l'alba della Patria Unita e visse emotivamente anche la delusione storica che ne seguì, con le due Guerre Mondiali e la conseguenti tragedie della miseria.
In Piazza Attrizzi, un tempo densamente abitata, non passava notte che la gente non udisse tuonare il comando: "Cavalleria, avanti un passo!" ed insieme non avvertisse nell'aria l'odore del vino casereccio: quella voce era di Vito Furcillo, nato ad Eboli nel 1893, e soprannominato Sciascone, perchè portava con se sempre il suo fiasco di vino. E' descritto con un naso rosso, proprio del colore del vino stagionato, e lavorava in una cantina, per la quale faceva le consegne a domicilio. Quasi sempre gli offrivano un bicchiere di vino come mancia e lui non rifiutava mai il gradito invito. Indossava una giacca piena di medaglie, di grandi militari, e scherzava con tutti: bonario con i bambini e paziente allo scherno degli adulti. Un tempo si ammalò ed il medico, prescrivendogli la cura, escluse dall'alimentazione, categoricamente, il vino. Nella stanza di Sciascone vi era una grossa damigiana piena ed il medico, per evitare tentazioni, pensò bene di farla rimuovere: i suoi amici si assunsero l'incarico di trasferire la damigiana sul soppalco di legno che sovrastava l'unica camera della casa. Gli portarono anche la cena e gli fecero compagnia, prima di andarsene e lascialo al suo riposo notturno. La mattina seguente trovarono Sciascone brillo, con gli occhi lucidi e con un sorriso furbo che li guardava dal letto. Decisero allora di chiudere a chiave la porta della soffitta. Ma anche il giorno dopo e l'altro ancora Sciascone si fece trovare ubriaco e rubicondo. Nessuno riusciva a spiegarsi come facesse a bere vino, dal momento che la damigiana era chiusa. Finalmente guarì e gli amici decisero di restituirgli la chiave. Ridendo disse che non gli occorreva più, perchè nei giorni di malattia aveva bevuto tutto il vino e mostrò loro un tubo di gomma che, ben nascosto, scendeva dal soppalco ed arrivava fino al letto. E dunque confessò: "con questa canna, che parte dal soffitto e finisce nella damigiana, ho bevuto tutto il vino che ho voluto. Ho così inventato il vino in presa diretta! E continuò a ridere ubriaco e contento.
Pastetta 'o molafuorbece era un arrotino che lavorava moltissimo a Eboli specialmente quando era il periodo di ammazzare i maiali e di conseguenza della lavorazione delle loro carni. Il suo giro di affari arrivava fino a Potenza. Una domenica lavorò tanto nel capoluogo lucano che decise di fermarsi a pranzo in una locale osteria. Gradì molto le pietanze della locanda ed ancor più il buon vinello, al punto che ne bevette troppo fino ad ubriacarsi. Il Delegato del paese, saputo dell’ubriaco, andò a chiedere i documenti a Pastetta che purtroppo ne era sprovvisto. Allora fu incatenato e portato in prigione tra le rimostranze e urla del malcapitato che affermava di essere il "compariello di Rumenicantonie Iorge". La mattina seguente, un avvocato, parlando con il presidente della Corte di Assise e di Appello di Potenza, spiegò l’accaduto e raccontò dell’ubriaco proveniente da Eboli e che ripeteva in continuazione di essere compariello a "Rumenicantonie Iorge", il quale aveva "battiate" (vale a dire battezzato) sua figlia. Solo allora il Presidente capì che era Pastetta ‘o molafuorbece. "Rumenicantonie Iorge" era proprio lui, ossia il magistrato Antonio Domenico Giudice, nonno della medaglia d’oro al valor militare Vincenzo Giudice. Pastetta naturalmente fu subito liberato, con sua grande soddisfazione.
Quatt' sold': Zì Vicienz' era il Banditore del paese e, a causa della sua cecità, spesso si faceva accompagnare dal giovane figlio, Maruzziello, mantenendo tra le mani il suo bastone bianco. I ragazzini annunciavano il passaggio di questo personaggio atteso e vilipeso da tutti perché foriero di buone e cattive notizie, raccontate verbalmente. Antesignano dei manifesti cittadini, informativi e pubblicitari, attraversando le strade ed i vicoli del paese, con la sua voce tuonante attirava la curiosità della gente: "Uè, sentite 'nu banno!...", andava ripetendo, portandosi le mani alla bocca per amplificare il suono della voce ed essere il più chiaro possibile. Spesso era sollecitato, per scherno da parte di qualche insolente ragazzino, a ripetere la notizia. Talvolta l'intento burlesco andava a buon fine ed aumentava la fatica del povero Zì Vicienzo, soprannominato Quatt' sold'. Altre volte il burlone, smascherato, si trovava a fare i conti con il bastone e con le imprecazioni del banditore ebolitano. "Quatt' Sold'" in gioventù era stato un uomo temuto per i suoi atteggiamenti guappeschi. Divenne cieco dopo essere stato colpito da una fucilata di una guardia - che tra l'altro era suo compare - mentre stava rubando legna nel bosco di Persano. "Quatt sold", anche se cieco, riuscì in seguito a prendersi una piccola vendetta nei confronti della guardia: facendosi accompagnare alle spalle dell’uomo, seduto su una panchina nella piazza del paese, con tutta la sua forza che aveva in corpo, gli diede una bastonata in testa, tramortendolo. Quando l’uomo si riprese cominciò a gridare: "Cumpà, tu me sì accise!"; e "Quatte sold'" rispose: "I’ me crerèv' ca era 'a funtana!". Secondo un altro racconto, rimase cieco dopo una colluttazione avvenuta per questioni di donne. In seguito divenne banditore del paese e sposò una donna con una malformazione congenita, focomelica, soprannominata ‘A Manaciomba: la donna abitava in via Madonna delle Tre Corone ed era abile a sferruzzare con i piedi, riuscendo a confezionare, in breve tempo, calzini e maglie di lana. Ebbe da lei un figlio, Maruzziello, che divenne accompagnatore del padre per le strade del paese. Il suo annuncio più famoso è diventato proverbiale ad Eboli: "Addò cumpà Vito Ciao, 'a pret' 'o pesce, so' arrivat' 'e sard e l'alice. Ue', belliffemmene, jateve accattà 'u pesce frisco!".
Zazà, al secolo Francesco Bombace, nacque nel 1920 ad Eboli. Sposato con Emilia Papace, ha svolto svariati lavori, adattandosi a vari impieghi: è stato arruolato per molti anni nell'esercito, si divertiva a fare giochi di prestigio, soprattutto con i nipoti, e suonava la batteria nel complesso "I Sorrentini". Persona allegra e dal cuore contento, aveva sempre un sorriso per tutti. Deceduto nel 1990, il suo soprannome personifica ancora oggi, nel gergo comune ebolitano, una persona scherzosa ed abituata a sbarcare in lunario (si dice: "Sei proprio uno Zazà").